Fonte: La Stampa – Angela Casella è morta e c’erano suo marito e suo figlio con lei. C’era molto silenzio a casa. C’era tutto quel silenzio che la vita le aveva tolto vent’anni fa, quando si mise in catene per salvare il figlio rapito dalla ’ndrangheta e ai cronisti non riusciva neanche a spiegare bene il mondo che guardava: «Combatti con qualcosa che non vedi e che non senti».
L’altro silenzio: quello del potere e quello del dolore. Molte volte sono uguali. Piccola, minuta, il volto scarno. Il coraggio ce l’aveva negli occhi. Adesso, vent’anni dopo, Mamma Coraggio s’è portata via qualcosa di noi, un pezzo della nostra storia. Nel giugno del 1989 andò nei paesi dell’Aspromonte e si incatenò nelle piazze di Platì e San Luca per chiedere la liberazione di suo figlio Cesare: avevano pagato un riscatto da un miliardo e i banditi ne volevano altri 5. I giornali la chiamarono «Mamma coraggio». Si legava dentro a una tenda e fuori appoggiava dei cartelli: «Cesare, forse tu non hai nemmeno una tenda». O si teneva solo ai ceppi: «Mio figlio è così da 17 mesi». Attorno aveva qualche madre calabrese. Colpiva i cuori, in silenzio. E’ sempre stato il suo destino. E’ morta ancora così, tre anni di interventi chirurgici, una lunga malattia, una voce flebile: «Non odio la Calabria. E’ una regione bellissima. Ne ho un ricordo stupendo, se penso ai quei giorni. Di solidarietà».
Cesare Casella fu liberato il 30 gennaio 1990, quando Mamma Coraggio era tornata a casa e i carabinieri avevano arrestato Giuseppe Strangio, l’esattore della banda, la notte di Natale, mentre cercava di ritirare l’altro miliardo del riscatto. I giornali non dettero più lo stesso risalto. Tra l’89 e il ‘90, il mondo cambia volto: crollano i regimi comunisti in Europa, cade il Muro di Berlino, in Romania viene arrestato e ucciso Nicolae Ceausescu.
Fra un po’ arriverà Tangentopoli, stanno per cadere Craxi e la Dc. Quando Angela Casella si era messa in catene nei paesi dell’Aspromonte, le cronache raccontavano il processo a Gigliola Guerinoni, la mantide di Savona, e l’invasione delle alghe a Rimini, i ritratti di un’Italia ancora stralunata nel suo esagerato benessere degli Anni 80. Suo marito, Luigi Casella, era un operaio che si era messo a vendere automobili, diventando titolare di una concessionaria Citroën, la Casella srl, sulla Vigentina, periferia di Pavia, azienda e casa attaccate. Un uomo schivo, poche parole e tanto lavoro, e che è rimasto così, come si è costruito. La sera di lunedì 18 gennaio 1988, mentre Cesare stava rientrando con la sua auto nella nebbia, una vettura gli bloccò la strada e due banditi incappucciati lo prelevarono puntandogli contro una pistola. Prima lo tennero in un garage, vicino a Pavia, poi lo trasferirono sull’Aspromonte. Nella stessa zona erano prigionieri Marco Fiora e Claudio Celadon, altri sequestri che fecero storia. Li costringevano in tane lunghe due metri, larghe uno, e alte uno e mezzo, ai piedi di un albero alla cui base erano assicurate le catene da legare alla caviglia e al collo della vittima. Le pareti erano foderate da un muro di sassi. Sopra, una lamiera ricoperta di foglie.
Quando, dopo aver già ricevuto il miliardo pattuito, il telefonista della banda ne pretende altri 5, insultando il padre, «sei un bastardo, sta zitto e paga», Angela Casella decide di andar giù per manifestare la sua disperazione. Scende una prima volta nel novembre dell’88. Poi il 10 giugno ’89, per rompere il silenzio e smuovere le coscienze. Gira le piazze e raccoglie firme di solidarietà. Suscita ammirazione e commozione, inducendo lo Stato a fare qualcosa di più. Alla fine, quella drammatica partita la vince lei. Cesare viene liberato dopo 743 giorni. Solo Carlo Celadon è restato di più in mano agli aguzzini: 831.
Terminata la prigionia, Mamma Coraggio tiene una rubrica su «Visto», dando consigli alla gente che soffre. Fanno un film tv dedicato a lei: «Liberate mio figlio». Poi riuscirà a tornare nel silenzio. Cesare lavora col padre e ha fatto famiglia, e pochi giorni prima di morire lei ha confessato che ha smesso di pensarci, «ho finito di rimuginare». Molte cose sono cambiate, non sa se anche grazie a lei. «Ai tempi dei sequestri il sindaco non partecipava a nessuna manifestazione. Oggi indossa il tricolore e scende in piazza». Ma quando le hanno chiesto che cosa può insegnare a tutti quelli che soffrono, ha risposto: «Non bisogna mai aver paura», ha detto. Come se il coraggio uno se lo potesse dare.