Pubblichiamo di seguito il bel reportage de Linkiesta a cura di Antonello Mangano
La tensione è altissima. La società monopolista, la genovese Medcenter, avrebbe già deciso di spostare tutto in Marocco: il salario è un terzo e non si pagano tasse. E, soprattutto, non c’è la ‘ndrangheta, che qualche giorno fa ha sparato contro un operaio, impone il pizzo e fa arrivare fiumi di cocaina. Ma nel sistema globale dei porti il costo della criminalità appare come una delle tante “variabili ambientali”.
GIOIA TAURO (RC) – “Voi dieci anni di successi, noi dieci anni di miseria”. È lo storico striscione che i portuali innalzano per sintetizzare la loro vicenda. “Voi” è la compagnia Medcenter, compagnia genovese che ha conquistato una concessione cinquantennale della banchina. In cambio deve mantenere un minimo di 600 addetti. «I grandi porti sono di due tipi: commerciali o di transhipment» ci spiega Salvatore Palidda, docente di Sociologia generale all’Università di Genova e autore di studi sulle città del Mediterraneo. «Questi ultimi fanno una sola operazione: passano i container da navi enormi a navi più piccole. Non fanno né stoccaggio né semilavorazione. Negli altri porti scaricano e aprono i container, si smercia. Il porto commerciale ha dimensioni diverse e impiega più personale; nel transhipment tutto è automatizzato. Il personale è ridotto all’osso».
“Fattore di sviluppo territoriale”: così si autodefinisce il porto di Gioia nel sito ufficiale. Invece è rimasto un impianto isolato dal territorio e in balia degli ondeggiamenti di un mercato in mano agli oligopoli. Circa 630 lavoratori sono già in cassa integrazione. «Un numero troppo alto, considerato che nei primi mesi del 2011, rispetto allo stesso periodo del 2010, Medcenter aveva incrementato i propri flussi di traffico di circa il 10%», protesta la deputata Angela Napoli. La società avrebbe dichiarato che l’attività di transhipment è diminuita ma non intende cedere spazio. «Evergreen sta cercando in Italia», ci spiega Domenico Macrì, lavoratore del porto e sindacalista Sul. «A Taranto non è possibile perché per adattare il fondale dovrebbero rimuovere i fanghi inquinanti. Qui c’è almeno un chilometro di banchina inutilizzata».
Nel frattempo è cresciuta la tensione tra gli stessi sindacati: la Cgil ha denunciato minacce su Internet da parte dei dirigenti Sul, che raccoglie un terzo dei portuali. «Si tratta solo di un messaggio frainteso», spiega Domenico Macrì, una delle parti in causa. «Il problema vero è l’accordo che nei fatti reintroduce il cottimo e permette ai capiturno di controllarti e, se vogliono, segnalarti». Mentre rischia di finire in Tribunale la vicenda di un paio di post su Facebook, i numeri della crisi sono drammatici. «Chi e perché sta uccidendo Gioia Tauro?», si chiede Palidda. Macrì ha tre figli, due piccoli, e dal primo agosto ha lavorato solo 36 giorni. “Il governo favorisce i porti del Nord”, dicono spesso i politici locali. Invece il problema è dalla parte opposta. I concorrenti sono in Marocco, Tunisia, Egitto. E la ‘ndrangheta? Qui si è sempre sentita padrona di casa. Ma non è entrata di nascosto.
Siamo nel centro di Gioia Tauro, è il 14 dicembre. Due persone armate di fucile e pistola sparano contro Giuseppe Brandimarte, 40 anni, dipendente Medcenter. Secondo le agenzie aveva precedenti per associazione mafiosa. E’ finito con prognosi riservata nell’ospedale di Polistena e gravi lesioni in varie parti del corpo. Gli hanno sparato di fronte ai colleghi, di mattina. Come si percepisce all’interno la presenza mafiosa? «Non è semplice – racconta un testimone –. Di recente hanno arrestato un capoturno che aveva portato fuori cinque quintali di cocaina. Sembrava il più corretto all’interno del terminal, uno di polso fermo. Prima di essere assunti c’è l’esame dei carichi pendenti e del casellario giudiziario. In più siamo al “livello 1” di sicurezza delle norme antiterrorismo».
Ma il ferimento è solo l’ultimo di una serie di fatti di cronaca criminale. La storia inizia già con i lavori di costruzione: è il passaggio che crea le “ndrine imprenditrici”. «La mafia delle guardianie delle campagne era diventata mafia dei cantieri, del trasporto, dei subappalti», racconta Giuseppe Lavorato, ex sindaco antimafia di Rosarno. «Quando Andreotti mette la prima pietra, la cosche mafiose erano tutte presenti, con in testa quella dei Piromalli». Sono loro lo storico casato di ‘ndrangheta della Piana. Nel 1993 incontrarono gli armatori del nord. «Siamo lì da cent’anni», spiegano i boss. Pretesero una simbolica tassa di un dollaro per container e chiusero la discussione: «Siamo il presente, il passato e il futuro». E invece il futuro lo hanno pesantemente ipotecato, come hanno già fatto con la distruzione dell’agrumicoltura, oggi nota solo per la vicina Rosarno. Lo scalo è celebre per i sequestri di cocaina: un fiume di droga parte dal Sudamerica e viaggia nascosto nei container.
Nel corso degli anni sono state sequestrate diverse tonnellate di sostanze stupefacenti. Nel 2004 la droga era nascosta dentro lastre di marmo e diretta ai Mancuso, potente clan della provincia di Vibo. Alcuni affiliati di Gioiosa Jonica provarono a riciclare parte dei guadagni con una falsa vincita al Superenalotto da 8 milioni di euro. Dopo sette anni i magistrati scoprono che quel circuito è ancora in piedi. L’organizzazione è collegata direttamente coi paramilitari colombiani (il trafficante Castillo Rico venne sequestrato per una fornitura non pagata ai calabresi) e fa arrivare la droga nascosta dentro normali forniture commerciali ai porti di Amburgo, Salerno e ovviamente Gioia. Qui arriva anche una quantità impressionante di merce contraffatta, armi e persino sigarette. Spesso le imprese mafiose provano a ottenere appalti dell’indotto.
Tutti sanno quello che succede, da anni. Si può affermare che lo Stato ha creato un’imponente struttura logistica per i traffici mafiosi? «Quando iniziammo le indagini portai ad esempio alcune mentine che la pubblicità rappresenta come il buco con la menta intorno. A Gioia Tauro si era creata la mafia con la polizia intorno che blindava…», racconta Roberto Pennisi, magistrato di Reggio Calabria.
Qual è il peso della ‘ndrangheta della crisi del porto? Da una prima analisi sembra una delle tante “variabili ambientali”. Importante ma non decisiva per i conti delle aziende. Il sistema della sponda nord è formato da Algeciras, Gioia Tauro, Cagliari e Taranto. Quello meridionale da Tangeri Med, Port Said e Enfidha (rispettivamente Marocco, Egitto e Tunisia). I primi sono in profonda crisi, i secondi crescono a ritmi impressionanti. Questi scali servono in gran parte a smistare l’enorme volume di container che provengono dal “Far East” alle navi più piccole che entreranno nei porti europei, trasborderanno su treni e camion e infine inonderanno le città di prodotti a basso costo “Made in China”.
La partita si gioca su due tavoli: costo del lavoro e logistica/produttività. Il Nord Africa non è più la terra del lavoro desindacalizzato. In primavera si è fermato lo scalo egiziano di Port Said. La Maersk (che ha abbandonato Gioia Tauro) ha concesso aumenti di stipendio. In estate è arrivato il primo sciopero a Tangeri. I lavoratori della Union Marocaine du Travail hanno incrociato le braccia per chiedere lo stesso trattamento. Solo dopo diversi mesi di sciopero, e di fronte al rischio del dirottamento permanente delle attività nel vicino porto spagnolo di Algeciras, la società ha ceduto. La forbice dei salari è destinata ad accorciarsi, ma complessivamente le condizioni rimarranno vantaggiose.
Maroc Techniques Management spiega che il salario minimo garantito in Marocco è di 10,64 dirham all’ora, poco più di un euro. La paga media nei porti è di 400 euro (in Italia 1400). Secondo l’Eurispes, il costo medio all’ora del lavoro di un operaio rilevato presso i nostri terminal di transhipment è pari a 22,1 euro. Contro 3,1 euro del Marocco e 1,9 euro dell’Egitto. Un articolo dell’Economist pubblicato prima della “primavera araba” sottolineava, tra i fattori per fare business in Nord Africa, il dato della disoccupazione: 12% secondo le statistiche dei governi, 30% nella realtà. Ma anche in Calabria non siamo lontani da questi numeri. Maroc Techiniques elenca altri vantaggi: procedure semplificate per gli investitori stranieri (senza contare che lingue parlate quasi correntemente sono quattro – arabo, francese, spagnolo, inglese) e poi l’esenzione dalle tasse e operazioni doganali semplificate.
Il controllo del “mercato” rimane un affare che riguarda pochi soggetti. «Quelle che comandano sono le grandi società di shipping. I cinesi, gli olandesi e i napoletani della Msc», spiega Palidda. «Nascono come una grande compagnia di container e poi hanno aggiunto le crociere». MSC è rimasto l’unico vero cliente di Gioia Tauro. Ma lo spostamento verso sud sembra inevitabile: «Il numero uno del porto di Marsiglia è un operatore libanese», racconta ancora Palidda. «Ha detto di essere molto legato alla Francia. Dichiarazioni di circostanza, perché di fatto anche lui sta andando a Tangeri. Marsiglia è morta e non ha più speranza di riprendersi, diventerà un porto di provincia. Nella strategia europea, si privilegia il corridoio adriatico che porta alla Germania. Trieste-Monfalcone sarebbe il nuovo punto di riferimento. A Genova, all’inizio degli anni ’80, c’erano 7000 camalli. Oggi sono 500 anche se si movimenta molto di più. Invece Tangeri trenta anni fa era una città poverissima di 60mila abitanti. Oggi sono un milione. E i numeri del porto sono triplicati in cinque anni. Lo stesso avviene in Egitto e Tunisia. I capitali vengono dagli Emirati. L’armatore Messina – genovese – si sta spostando lì. Anche in piena “rivoluzione dei gelsomini” hanno continuato a lavorare ai cantieri del nuovo porto».