Fonte: Il Sole 24 ore
Quando il boss di ‘ndrangheta è latitante il comando passa alla moglie. Lo pensa il 56% degli italiani secondo quanto risulta dalla ricerca fatta svolgere dalla Fondazione Bellisario, che viene presentata oggi a Reggio Calabria nel corso del convegno “L’altra metà della ‘ndrangheta – Le donne, le cosche, il potere”. Al Sud lo pensa il 62,3% degli intervistati, al Nord la percentuale scende al 53,2%.
La maggioranza sembra dunque concordare con il sostituto procuratore antimafia di Reggio, Giuseppe Lombardo, che dichiarò: “La moglie del boss latitante è l’alter ego del capo, ne assume di fatto il posto. Non si possono più fare indagini moderne trascurando l’altra metà del cielo”.
Tra i pregi della ricerca c’è quello di mettere in luce la distanza (a volte siderale) tra Nord e Sud nell’interpretazione del ruolo della donna nelle dinamiche criminali calabresi.
Per chi vive nelle regioni del centro o settentrionali, il ruolo delle donne è cresciuto, si è evoluto, in una parola è diventato più significativo (le percentuali sono rispettivamente del 44,8% e del 36,6%) mentre per chi vive al Sud è sempre stato marginale e modesto (27,7%).
Le differenze che spaccano in due gli italiani riemergono quando i ricercatori di Euromedia research, che hanno intervistato telefonicamente 1.000 persone, hanno domandato se le nuove generazioni femminili sono più o meno propense alla ribellione e alla collaborazione con la giustizia. Per il 41,9% dei meridionali la risposta è positiva, mentre, specularmente o quasi, per il 43,7% dei settentrionali la risposta è negativa.
Per il resto la ricerca conferma di sensazioni diffuse. Per il 48,2% degli italiani le donne di ‘ndrangheta sono complici consapevoli o testimoni silenziose (le percentuali sono più elevate al Sud e tra gli uomini piuttosto che tra le donne).
Quasi la metà degli intervistati (45,3%) riconosce una forte associazione tra complicità e dimensione del potere, secondo una relazione per la quale più alta è la complicità (con l’uomo potente) più la donna acquista potere. “La donna quindi nella struttura ‘ndranghetista – scrivono i ricercatori – brilla della luce riflessa del proprio uomo, secondo una logica di proporzionalità diretta per cui, quanto maggiore è il potere dell’uomo, tanto maggiore è l’influenza della sua donna all’interno della scala gerarchica della cosca”.
Si conferma inoltre la distanza delle donne dal ruolo di vittime, inteso sia nella sua accezione «passiva» (rassegnazione), che in quella «attiva» (ribellione).
Oltre il 40,0% del campione attribuisce alla donna nella ‘ndrangheta una collocazione sostanzialmente marginale. Alla domanda “Secondo lei, oggi, quale posizione occupa la maggior parte delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose calabresi?” il 20,8% degli intervistati ha risposto “nell’ombra, fuori dalla scena”, mentre il 20,7% ha risposto “sullo sfondo, ai margini”.
Questa opinione è particolarmente diffusa tra gli uomini e nel Sud, mentre al Centro e al Nord e soprattutto tra le donne, prevale l’idea di un ruolo più attivo (“sul campo, in prima linea”). “Queste differenze, non solo ci confermano segnali di una visione maschilista più diffusa nell’Italia meridionale e insulare – scrivono ancora i ricercatori – ma ci suggeriscono al tempo stesso una tendenza, consolidata nelle zone Centro-Settentrionale e nel target femminile, ad attribuire anche alle donne della ‘ndrangheta il ruolo attivo e partecipativo che ormai caratterizza la concezione più moderna di una donna libera ed emancipata”.
Ciò che invece gli intervistati sembrano sostenere con determinazione è la convinzione che attualmente la donna nelle organizzazioni ‘ndranghetiste non occupi una posizione di potere o di vertice: è solo l’8,1% del campione, infatti, a ipotizzare una femminilizzazione dei vertici nelle cosche calabresi.
Ma se comunque il ruolo della donna è crescente qual è la funzione che le viene riconosciuta? Le idee sembrano piuttosto chiare e coerenti con la rappresentazione generale di una donna “complice consapevole” (quindi connivente), lontana tanto dai centri del potere quanto dal concetto di vittima tout-court.
Ecco dunque che quasi la metà degli intervistati attribuisce alle donne della ‘ndrangheta una funzione che, sebbene sia “di contorno”, non è del tutto passiva: al contrario, appare funzionale e strumentale alla vita e alle attività della cosca (una risorsa operativa per il 28,7% del target, uno strumento di sostegno e difesa dei valori della cosca, per il 20,6%).
Gli intervistati tendono ad associare alle donne della ‘ndrangheta soprattutto attività collegate alla gestione e all’amministrazione del denaro (83,0%): non sfugge, di fronte a questo dato, l’analogia con le attività normalmente “assegnate” alla donna nell’ambito della vita familiare
Sembra comunque permanere nelle percezioni degli intervistati la convinzione che il ruolo e la posizione delle donne all’interno delle cosche continuino ad essere fortemente assoggettati al controllo che la solida cultura ‘ndranghetista esercita attraverso le gerarchie, la gestione del potere e i valori storici legati ai legami familiari. Le leggi sociali di una struttura androcentrica come la ‘ndrangheta, in altri termini, vincolerebbero le donne alla cosca mantenendole comunque in una posizione di totale subordinazione alla figura maschile di riferimento.
Questa convinzione sembra influenzare fortemente anche le attese sui possibili sviluppi futuri del ruolo femminile nella ‘ndrangheta: in generale, infatti, la crescente partecipazione delle donne all’interno delle cosche non viene interpretata dagli intervistati come una minaccia per il futuro della ‘ndrangheta. Ben il 51% degli intervistati ritiene infatti che le donne non rappresentino l’anello debole della mafia calabrese.