In preparazione del convegno, organizzato da Magistratura Democratica, che si terrà a Reggio Calabria il 24 gennaio sui temi dell\’inaugurazione dell\’anno giudiziario, pubblichiamo un contributo del dott. Francesco Tripodi, magistrato presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria:
Scriveva nel 1985 Leonardo Sciascia a proposito di un saggio sull’assassinio di Giovanni Gentile: “c’è qualcosa di peggio del non fare una rivoluzione o (se vi piace) del farla; ed è il farla a metà. Da una rivoluzione fatta a metà discendono tante delle cose italiane in cui penosamente annaspiamo”. Trovo queste parole stimolanti per cercare di capire, in piccolo, quello che sta accadendo in Calabria (e sopratutto nella nostra realtà) sui temi chiave della giustizia, della politica, della lotta alla ‘ndrangheta. Di nuovo ci sono molte cose che fanno ben sperare, forse non una rivoluzione, ma certo qualcosa di importante.
E’ cambiato anzitutto da qualche anno il vento dell’informazione: diciamolo chiaramente, anzitutto la “rottura” del monopolio informativo della Gazzetta del Sud, quella che i reggini chiamano per antonomasia “a gazzetta”. Una voce “ufficiale”, veicolo dei comunicati di ogni istituzione piccola o grande, sostanzialmente equilibrata, ma che forse ha finito per coltivare troppo questo equo gioco delle parti: con politica, magistratura, avvocatura sempre in evidenza nella loro immagine migliore e rassicurante.
Chi guarda l’attuale panorama vede ora concorrere sul web e sulla carta stampata testate giovani e vivaci, dove si cerca di scrivere di mafia e politica, di cultura e società, in modo talora disordinato ma non banale. Sta crescendo una generazione di ragazzi con voglia di giornalismo d’inchiesta, con qualche semplificazione eccessiva certo, ma coraggioso, consapevole del livello insostenibile di infiltrazione della criminalità mafiosa e del peso opprimente che ha assunto una politica ferocemente clientelare nella nostra vita civile. Il rischio connesso è una certa spettacolarizzazione: gli eroi sono spesso solo i magistrati antimafia, la realtà inizia e finisce con le inchieste e gli arresti; ma non c’è da preoccuparsi troppo. Col tempo crescerà anche il senso critico e diminuiranno le semplificazioni.
Lo stesso è accaduto per movimenti e associazioni. Qualcuno è andato a raccogliere incarichi e posticini, qualche altro strepita che la sua antimafia è migliore di quella della porta accanto, ma la consapevolezza che bisogna agire in profondità sta maturando al traino delle realtà più serie e radicate. Lo spessore delle loro iniziative sociali (cooperative di produzione, centri di aggregazione sociale,ecc.) cresce visibilmente. E’ una pianticella, ma può diventare un albero; un processo formativo tanto a lungo atteso che deve trovare le sue radici. Nella cultura anzitutto: più biblioteche e meno convegni, per favore. Prendiamo ad esempio l’idea del “museo della ‘ndrangheta” che quando è venuta fuori appariva qualcosa di strampalato (mettiamo coppole storte e lupare, come i telai delle nostre nonne, sotto una teca ?): è evidente che non si può leggere la storia criminale in modo separato da quella, della Calabria dell’ultimo secolo e del meridione intero: un giovane calabrese, che voglia formarsi seriamente, prima dei libri di Gratteri e di altri, è bene conosca Corrado Alvaro, riprenda magari gli scritti di Salvemini e Zanotti-Bianco sulle origini della questione meridionale.
Da iniziative politicamente “corrette” (e superficiali, spesso di questi tempi le due cose si identificano) possono nascere però, quando c’è voglia di fare bene, frutti buoni: gli esordi del “Museo”, centrati su importanti aspetti formativi, appaiono – va detto – promettenti e tutt’altro che banali (ma per favore cambiategli il nome).
E veniamo alla magistratura, sulla quale mai come in questo momento si appuntano le speranze di cambiamento. La giustizia è amministrata in nome del popolo, ci ricorda la Costituzione, ma i giudici sono soggetti “soltanto” alla legge. Hanno, insomma, un compito diverso da quello di “lottare” la mafia. Cerchiamo di intenderci. La mafia la lottano tutte le persone oneste che cercano di fare con dignità il proprio lavoro, pagano le tasse, non prevaricano, la contrasta una buona politica, una efficiente amministrazione, ecc. Il magistrato deve cercare la verità con gli strumenti e le regole del diritto e solo attraverso esse deve “lottare” la mafia. Guai se la tensione morale contro il male mafioso si separa dallo scrupolo del giurista. Se le prove non ci sono anche il magistrato dell’accusa deve chiedere l’assoluzione. Quando questo non avviene si verifica un’anomalia e cresce il rischio di santificare esercizi dissennati della giurisdizione, solo perché si afferma di lottare (incompresi) contro malaffare e poteri occulti. Per alcuni magistrati si è trattato di un trampolino verso la politica e non la fine di una carriera. Sono quelli che Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera ha chiamato “i magistrati senza sentenze”, alla spasmodica ricerca dell’inchiesta mediatica, degli arresti clamorosi ed affrettati, non di una vera giustizia.
Sotto questo aspetto, la “svolta” della Procura di Reggio di cui tanto si parla sta forse in cose che si notano di meno, ma pesano tanto: le conferenze stampa fatte di cifre, dati, riscontri, l’allergia verso il sensazionalismo, la cautela rispetto ai procedimenti dove ancora non si è giunti ad una sentenza, l’invito a considerare la repressione penale come un primo contributo alla legalità che non deve restare isolato.
Il nuovo è questo. Il “vecchio” sono le dichiarazioni di plauso che si levano più o meno interessate da ogni dove (con annessa sarabanda di premi, convegni, ecc.).
Questo senso di un lavoro da fare a partire dalle piccole cose, quotidiano e in profondità, deve caratterizzare, insomma, la “nuova” antimafia e farne l’avanguardia del lavoro più importante, quello di ricostruzione della legalità. Legalità sostanziale e non formale, carica di senso della giustizia. Anche qui senso critico, prima di tutto. Ce ne sono di leggi sciocche o inadeguate, di formalismi e prassi da abbandonare,sgomberato il campo dalla prepotenza mafiosa. Abbiamo insopportabili livelli di lavoro nero, centinaia di imprese agricole fasulle, sacche di precariato alimentate dalla politica, una università mescolata in tanti suoi ambiti con i malcostumi locali (ma anche qui una salutare riflessione sembra essere iniziata).
Ci vogliamo accontentare dell’operazione di polizia che recupera qualche colpevole da esibire e conforta il lettore del mattino ?
Se il cambiamento che vogliamo è un altro, dobbiamo abituarci a un confronto costruttivo, senza strepiti: dire quello che non va, esercitare attenzione e controllo anche sui magistrati e l’amministrazione della giustizia: se per mesi e anni non si depositano le sentenze non è colpa delle risorse; se di venti persone arrestate ne vengono assolte 15 qualche problema c’è. Per non parlare delle spese di consulenze, amministrazioni giudiziarie, noleggi di apparecchiature, settori meno visibili forse, nei quali rigore e trasparenza devono essere di casa.
La prossima inaugurazione dell’anno giudiziario – se ne parlerà a breve in un incontro-dibattito che i magistrati reggini hanno fortemente voluto – può iniziare ad essere un banco di prova se il rinnovamento anziché chiederlo agli altri, la magistratura lo pretende anzitutto al proprio interno. Statistiche “vere” e trasparenti sul lavoro dei giudici, analisi delle tante inefficienze e promozione delle “buone” prassi, meno litanie sulle risorse che pure, va ribadito, mancano. I segnali positivi ci sono, ma bisogna fare di più.
Infine la politica e i nostri doveri di cittadinanza che ne sono il presupposto, come ci ha ricordato negli auguri di fine anno il presidente Napolitano. Rieducarsi alla “sostanza delle cose” dopo una sbornia, tutt’altro che esaurita, di apparenza e faciloneria non sarà una cosa semplice. Promettere concorsi ed assunzioni regolari al proprio elettorato, diciamolo francamente, paga ancora meno di assicurare una manciata di contrattini e consulenze.
E’ comodo, ad esempio, fare antimafia con le costituzioni di parte civile, che servono ormai ben poco ma fanno titoli sui giornali e permettono pure di regalare a qualche avvocato amico una manciata di soldi. Si fa ancora ciò che “luccica” non quello che più serve. Ma non sarebbe più “antimafia” per un Comune pagare regolarmente gli stipendi agli operatori di una comunità per minori a rischio (anche se qualche sigla dell’”antimafia” dovesse insorgere per dire che stiamo “abbassando la guardia”) ?.
Ha scritto di recente sul Corriere Ernesto Galli della Loggia: “Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità”. Dobbiamo riabituarci faticosamente ad osservare i fatti, ragionare, agire. E’ il solo possibile futuro della democrazia, verrebbe da dire citando ancora il presidente Napolitano del messaggio di fine anno. Ma per la Calabria è forse anche l’ultima occasione.
Francesco Tripodi – Magistrato presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria
fonte: Strill.it