di Giovanni Tizian e Laura Galesi (Lettera43)
Da mafie agropastorali a holding economiche e finanziarie. Che investono il denaro illegale anche nella filiera agricola, con ratio imprenditoriale e non più parassitaria. La trasformazione «culturale» delle cosche siciliane e calabresi è tutta qui. Occupano e inquinano tutta la filiera, dalla produzione al trasporto e alla distribuzione di frutta e verdura e controllano ormai un giro d’affari stimato da Sos Impresa in 7,5 miliardi di euro all’anno.
Il dato assume dimensioni ancora superiori se sommato al fatturato del mercato ittico, 2 miliardi di euro, che attira fortemente le organizzazioni criminose (tanto che il soprannome di Franco Muto, un boss calabrese, è il «Re del pesce»), con un totale di oltre 8.500 esercizi al dettaglio coinvolti.
In agricoltura i clan riciclano i soldi sporchi
Un fatturato in gran parte legale e alla luce del sole, ma nel quale vengono riciclati i proventi dei traffici illeciti dei clan e che viene gestito con la violenza e la prevaricazione tipica dei sistemi mafiosi.
I MELONI DI MARSALA. Lo provano anche le parole di Massimo Sfraga, ritenuto dagli investigatori «referente di Cosa nostra palermitana e trapanese nel settore ortofrutticolo». Qui è facile individuare il primo anello della filiera inquinata: «A Marsala se ci sono 1.000 filari di meloni, 800 sono nostri e 200 degli altri… Io ho i meloni e voi dovevate chiedere a me: io devo caricare i meloni di campo aperto… vedete che in due giorni a Marsala i meloni arrivano alle stelle. Sono capace di andare in campagna e comprare i meloni a 45 centesimi, ci metto due minuti vado in campagna prendo i miei camion, porto i meloni e non lavorate per otto giorni e vi faccio perdere a tutti i soldi».
PREZZO PREFISSATO. Insomma, i piccoli produttori dovevano vendere i prodotti al prezzo fissato dai fratelli Sfraga (scarcerati e riarrestati il 12 aprile scorso, dopo che la Cassazione ha accettato il ricorso del pm), titolari di un grosso centro di commercializzazione nella zona di Marsala.
«Non c’era possibilità di alcuna contrattazione», è stato lo sfogo di un agricoltore all’indomani del loro arresto, «erano loro che facevano il mercato».
Anche il trasporto è in mano ai mafiosi
I magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli che hanno seguito l’indagine hanno parlato di «contesto asfissiante, vera negazione dei più elementari principi economici liberal-democratici».
Una considerazione riferita anche al trasporto su gomma, controllato di solito dal clan dei casalesi, in accordo con i referenti di Cosa nostra.
Ma c’è anche la mano della ‘ndrangheta: per esempio la cosca Pesce, alleata del clan Bellocco, ha controllato fino al maxi sequestro di qualche settimana fa i mezzi su gomma che approvvigionavano il supermercato Ce.Di. Sisa di Rosarno (Reggio Calabria).
DALLA SICILIA A FONDI. Dai principali mercati ortofrutticoli della Sicilia (Catania, Vittoria, Gela e Palermo) il trasporto della frutta e della verdura fino a Fondi (Latina) è monopolio delle organizzazioni mafiose, così come emerso dall’inchiesta «Sud Pontino» del maggio scorso, che ha visto proprio il mercato di Fondi, insieme con altre piazze del Sud Italia, coinvolto in un sistema economico illegale che fa crescere gli oneri per le imprese del settore.
«Il trasporto su gomma è uno dei costi che grava maggiormente sui nostri bilanci», conferma a Lettera43.it Salvatore Dell’Arte, presidente della Cooperativa Aurora di Pachino, dalla quale di riforniscono Esselunga, Conad e Coop.
IL SISTEMA PAGANESE. Al centro dell’indagine Costantino Pagano, uno dei titolari della società La Paganese trasporti & C. Descritto dagli investigatori come «mandatario del clan dei casalesi e fiduciario di Cosa nostra» per il settore del trasporto su gomma da e per i maggiori mercati del Centro-Sud Italia.
Ma dopo l’indagine sul sistema Paganese, le cose non sembrano mutate: «Ci sono agenzie di trasporto che rinunciano a effettuare trasporti in alcune parti d’Italia», spiega a Lettera43.it Riccardo Santamaria, coordinatore di Sos Impresa Sicilia, «il presidente di un’associazione di trasportatori del ragusano mi ha raccontato che ha tentato di espandere le proprie commesse, ma gli hanno fatto capire che non era il caso. Esistono accordi sottobanco che limitano la libertà di fare impresa».
I tentacoli della ‘ndrangheta sui mercati
Dalla produzione e dal trasporto dei prodotti agricoli le cosche allungano i loro tentacoli nei successivi passaggi della filiera. A partire dai mercati ortofrutticoli del Nord, un ricco terreno in cui è la ‘ndrangheta calabrese a farla da padrone.
A MILANO FRUTTA E COCA. L’indagine sull’ortofrutta milanese ne è un esempio. La cosca dei Morabito di Africo, provincia di Reggio Calabria, ha avuto a disposizione una miriade di cooperative, attraverso le quali ufficialmente commercializzava prodotti agricoli. Ma in realtà si trattava di imprese di copertura, funzionali al riciclaggio e allo stoccaggio della cocaina.
Un’inchiesta mostra che a subire l’assedio delle cosche calabresi è stato anche il mercato ortofrutticolo di Fondi, in provincia di Latina. Qui, secondo gli investigatori, le ‘ndrine si sono radicate grazie alle imprese collegate a Venanzio e Carmelo Tripodi, figli di don Mico, il patriarca ucciso a metà degli anni ’70 durante la prima guerra di mafia in Calabria. Una guerra che ha rappresentato lo spartiacque tra vecchia e nuova ‘ndrangheta imprenditrice.
DA ROSARNO A BOLOGNA. Un altro esempio? A Bologna gli ‘ndranghetisti di Rosarno hanno puntato gli occhi sul Caab, il mercato ortofrutticolo più grande dell’Emilia Romagna.
Bellocco è il nome della cosca che, secondo le indagini, ha scelto la città delle due Torri come terra d’investimenti. Il boss Carmelo Bellocco, una volta ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali, ha iniziato a lavorare presso una ditta all’interno del Cabb di proprietà di un altro rosarnese.
Ma durante la prova i segugi della Mobile di Bologna non hanno mai smesso di osservare le sue mosse. Così hanno scoperto che Bellocco stava riorganizzando la cosca in Emilia, e progettava una vendetta contro la cosca avversaria, i cui referenti vivono a Reggio Emilia.
L’anno scorso è stato arrestato insieme con il titolare della ditta ortofrutticola attiva nei locali del mercato ortofrutticolo di Bologna. A gestirla attualmente sono i figli del compare imprenditore, arrestato e condannato con il boss.
IL PIZZO SULLE CASSETTE. Ma la mafia esige il controllo su ogni aspetto economico del comparto ortofrutticolo, perfino nel settore delle cassette della frutta.
«Lavoro da tempo nel settore» racconta Santamaria «e posso dire che anche in questo settore, i mafiosi hanno concentrato i loro interessi. Cosa nostra voleva inquadrarci in un unico consorzio per controllarci meglio. Voleva che guadagnassimo un massimale già stabilito e che dessimo ai clan una percentuale per ogni cassetta venduta. Erano informati su quante cassette uscivano dalle segherie della zona. Di conseguenza esigevano una tassa di 40 lire a cassetta. Erano milioni su milioni che entravano giornalmente nelle casse della malavita organizzata».
Un ricarico che penalizza produttori e consumatori
Anche a Vittoria, città delle primizie, il mercato ortofrutticolo è al centro di pressanti interessi mafiosi. Cosa nostra e Stidda (Stella in italiano), una costola ribelle della tradizionale mafia siciliana, esercitano il loro dominio sulla vita del mercato che con i suoi 600 milioni all’anno di giro d’affari, insieme con quelli di Fondi e di Milano è uno dei più importanti d’Europa. E il maggiore in Italia.
Altro dato impressionante è il movimento di soldi dei magazzini esterni al mercato vittoriese, che lavorano direttamente con la grande distribuzione. «Circa una volta e mezzo quello interno al mercato. Ma si tratta di cifre difficili da quantificare, perché gli imprenditori non le rendono note. Basti pensare che c’è un grosso magazzino che da solo produce un volume d’affari pari a un quarto del mercato ortofrutticolo», spiega Santamaria.
Da Vittoria, provincia di Ragusa, partono i pomodorini di Pachino. «Le infiltrazioni non sono soltanto nel mercato ortofrutticolo», dice ancora Santamaria, «ma su tutta la filiera».
IL DANNO PER I SOGGETTI DEBOLI. E a perderci, a causa dell’inquinamento malavitoso sono gli anelli deboli della catena: bracciante, produttore e consumatore. Tre soggetti che, ognuno per motivi differenti, hanno smarrito il potere contrattuale.
Facciamo un esempio. Al produttore un chilo di ciliegino di Pachino, la specie più cara, viene pagato due euro (lordi, a cui vanno tolti etichettatura, packaging e trasporto). Sui banconi della distribuzione del Nord, in questi giorni, è possibile acquistarlo a 6,90: un ricarico esagerato.
«Ci sono anni in cui il produttore non prende neppure le spese sostenute per rendere produttivo il campo», sottolinea Santamaria.
Nei supermercati i prodotti spinti dalle cosche
Alle cosche mafiose fa gola, da tempo, anche la grande distribuzione. A fine gennaio sono stati condannati Matteo Messina Denaro e Giuseppe Grigoli, ritenuto il re della catena Despar nella Sicilia occidentale e braccio economico del boss trapanese. «Il mio paesano», lo chiama Denaro nei pizzini inviati a Bernardo Provenzano.
VINI E RICOTTA DEGLI AMICI. Durante le udienze del processo sono emersi alcuni aspetti legati alla commercializzazione dei prodotti nel circuito dei Despar siciliani.
Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione Sicilia condannato per favoreggiamento alla mafia, avrebbe chiesto a Grigoli di commercializzare i vini della sua produzione.
E Vito Mazzara, l’uomo sospettato dalla Dda di Palermo di avere ucciso Mauro Rostagno e che sconta l’ergastolo per tanti altri delitti, ha venduto a Grigoli la ricotta per i supermercati di sua proprietà.
Ed è sempre grazie a Massimo Sfraga che è emersa la ramificazioni di interessi mafiosi nel settore. «Io faccio il mediatore per la grande distribuzione, per il gruppo Esselunga e tutte le Sisa, la Sisa di Aversa, Sisa Campania e poi sto facendo la roba per un altro gruppo Conad Tirrenio», si vanta il commerciante colluso. Gli investigatori ascoltano e prendono nota.
VERSO IL CONTROLLO TOTALE. Anche Francesco Pesce, rampollo del clan calabrese, avrebbe incontrato, scrivono gli investigatori, «alti vertici» di Sisa per aprire alcuni punti vendita affiliati al marchio.
Nel maxi sequestro da 190 milioni di euro effettuato ai danni della cosca Pesce è finito di tutto. Squadre di calcio, imprese individuali attive nel trasporto e terreni agricoli.
Quindi ormai è dimostrato che ‘ndrangheta e Cosa nostra non puntano più soltanto all’inquinamento della filiera, ma le indagini mostrano un tentativo, a volte andato a buon fine, di controllo totale della catena.
Le mafie, insomma, dalla semina al consumo vogliono dominare la scena dell’agricoltura italiana.