Non c’è più la ‘Ndrangheta di una volta. Quella in cui i capi dei capi, la “Mamma” di San Luca, o le 3 famiglie che contano a Reggio, disponevano di ogni azione decisa da altre famiglie, soprattutto se di rilevanza nazionale o internazionale. Dunque gli attentati di Reggio, dalla bomba al portone della Procura Generale di via Cimino del 3 gennaio 2010, al portone di casa Di Landro, procuratore generale, saltato in aria a fine agosto, fino all’ottobre successivo quando un bazooka doveva finire, guidato dalle sapienti mani dell’artificiere della \’ndrina Antonio Cortese, la vita del procuratore capo Antimafia Giuseppe Pignatone, sarebbero state gestite, decise e attuate, unicamente dai fratelli Luciano, principale mandante, e Antonino Lo Giudice, organizzatore principe.
Il tutto affidato all’armiere Antonio Cortese, che chiama ad aiutarlo un incensurato sconosciuto alle forze dell’ordine, uno che gestiva appena una rivendita di motorini nel quartiere fuori controllo di Arghillà. Cenzo Puntorieri, lo chauffeur del motorino inquadrato dai video della Polizia mentre depositano una bombola di gas sotto il portone della Procura generale in quel livido mattino di gennaio, avrebbe fornito lo scooterone Honda Sh 300 usato per l’attentato; il mezzo è stato sequestrato la scorsa settimana dalla Dda reggina, dopo che dalla disponibilità di Puntorieri era passata per le mani della madre di Cortese (l’uomo che depositò la bombola, ma anche colui che piazzò l’esplosivo al portone di Di Landro e avrebbe dovuto uccidere Pignatone), per un altro “compare” che si era prestato al gioco, e infine recuperato dagli inquirenti della Procura antimafia di Catanzaro (competente per territorio) agli ordini i Enzo Lombardo (per anni pm antimafia sullo Stretto) .
Sarebbe una delle prove principe su moventi ed esecuzione del delitto; insieme con i colloqui tra il Puntorieri, l’esecutore, e l’armiere Cortese; insieme con i tabulati sugli spostamenti dei cellulari dei due, perfettamente coincidenti con le dinamiche degli attentati. I due infine si sentono anche in quelle afose notti di agosto, dopo aver piazzato l’esplosivo sotto casa del procuratore Di Landro. Cortese si accerta il giorno dopo che tutto sia filato liscio e chiama da una località oltre i confini nazionali, con una utenza rumena, il fidato compare di una vita Puntorieri, per rassicurarlo: «Allora, cumpari, abbiamo fatto un bel burdellu? Che si dice là in città, mi cercano?». E Puntorieri: «No no, tutto tranquillo, non pensano proprio a ttia, statti tranquillo là…» «Oh, Cenzo tu non ti preoccupare, che se mi trovassero qua dove sto, io a te non ti conosco, ah!».
Infine, insieme con i colloqui che in carcere lo stesso Luciano Lo Giudice avrebbe mantenuto con un mafioso siciliano, registrati dalla polizia di Stato nel penitenziario di Tolmezzo, nei quali il boss di Santa Caterina, a domanda del siciliano che chiedeva «Ma tu, di ste bombe a Reggio che sai?». Risposta, «Quel bordello lo abbiamo “armato’” (organizzato, ndt) noi, tutta roba nostra è». E infine e soprattutto, in base alla confessione del settembre scorso di Ninu u Nanu, al secolo Antonino Lo Giudice, capo cosca dei “santacaterinoti” che tenevano in pugno tutta la filiera dell’ortofrutticolo in provincia, rinunciando al predominio sul territorio del loro quartiere naturale, pur di entrare in un business che li avrebbe resi milionari. Milionari, ma mai tanto importanti quanto un De Stefano o un Tegano. Luciano Lo Giudice, l’uomo che regalava viaggi a Roma, gite in America a spese della sua carta di credito al capitano dei Carabinieri Spataro Tracuzzi (trasferito d’ufficio in Toscana nell’estate 2010) e al quale prestava le proprie Ferrari e Suv Porsche per girare in città, l’uomo che aveva avvicinato un ex pm della Dda antimafia, ora sostituto procuratore generale in Corte d’Appello, che aveva intrattenuto negli anni ’90 rapporti d’amicizia con un magistrato antimafia ora procuratore Antimafia presso la Dna nazionale, sarebbe infatti uno che si era montato la testa. Che non poteva vedersi sequestrati beni per 9 milioni di euro nell’ottobre 2009.
Che non poteva credere di essere finito in carcere, pronto alla casa circondariale di massima sicurezza di Tolmezzo, Friuli; che pretendeva dal fratello a piede libero Antonino il Nano di finire ai domiciliari, o magari in ospedale. E che quindi avrebbe deciso così, d’amblais, di provare a far saltare in aria la Procura e di uccidere il Procuratore capo. Senza con questo, lui che era boss sì, ma di una famiglia minore, senza avvisare nemmeno i suoi referenti di zona, i Tegano, o i mammasantissima di Reggio, i De Stefano che per primi hanno colloquiato con la politica, che potevano arrivare ai vertici delle Ferrovie dello Stato, che potevano incontrare i massoni per garantirsi l’appoggio delle logge deviate a Roma, in cambio di assicurare negli anni ’70 la latitanza in Aspromonte per i grandi terroristi neri Stefano Delle Chiaie, Pierlugi Concutelli e Franco Freda (come ricostruito nella inchiesta “Bellu Lavuru” del pm Giuseppe Lombardo per la prima volta, ndr).
Ossia, secondo la ricostruzione del procuratore capo catanzarese Enzo Lombardo, gente così non voleva consultare i De Stefano, che a Roma dispongono di senatori, onorevoli e sottosegretari, di tutte le parti politiche? Dopo che lo Stesso Antonino Lo Giudice, in uno dei suoi interrogatori ha dichiarato di essere stato chiamato da uno degli uomini del boss Tegano, per essere ordinato “padrino”; un grado finora sconosciuto nella gerarchia delle ‘ndrine. Dall’interrogatorio dell’ottobre 2010: «Mi assicurarono che era un onore molto grande, che in città come me ce n’erano pochissimi». Pm «Ma questo grado di padrino chi altri lo può vantare?». Lo Giudice: «Nessuno di quelli che conosco». Pm: «e sopra di voi? Cioè un Gianni Tegano, un De Stefano». Lo Giudice: «No, quelli, quelli, sono un’altra cosa dottore, di sicuro quelli stanno sopra…».
Quindi questi fratelli Lo Giudice per 9 milioni di euro sequestrati (tra i beni, curioso ricordarlo, anche il bar di fronte la Questura dove tutti i poliziotti fino all’anno scorso prendevano il cappuccio di prima mattina, o quella Cornetteria “Freschi Sapori” dietro l’angolo, di fronte la Stazione Centrale, aperta anche di notte e che riforniva tutte le volanti che dovevano girare con il buio), provano a far saltare il banco? Mirano a un Procuratore capo? Lo stesso Cortese dopo il suo arresto al confine sloveno in ottobre, avrebbe confessato di essere stato incaricato di scaricare il bazooka contro la finestra di Pignatone al sesto piano del Centro Direzionale reggino che ospita la Procura; per la paura, avrebbe desistito e chiamato il 113 per “avvertire” che un bazooka era stato piazzato, un “regalo” pronto per Pignatone. Ora, nella ricostruzione del capo della Mobile reggina, Renato Cortese, «La voce dell’attentatore è stata ricostruita al 99 percento, grazie al messaggio lasciato al 113». Si lascerebbe quindi a un attentatore così malaccorto il compito del maggiore omicidio di \’ndrangheta della storia?
Finora i mafiosi calabresi avevano azzardato l’assassinio di un uomo dello Stato solo in una occasione, nel 1991; il giudice Antonino Scopelliti poteva dare molto fastidio da Roma; era stato pm antimafia a Reggio e in Cassazione dava fastidio ai siciliani. Il suo omicidio, sarebbe stato il gesto che avrebbe riconciliato tutte le famiglie impegnate da 5 anni in un conflitto di mafia costato 800 morti, ci si sarebbe dato un comune obiettivo, e suggellato l’armistizio. Per prendere questa decisione, i negoziatori ‘Ntoni Nirta da San Luca, e don Mico Alvaro da Sinopoli, impiegano 6 mesi per convincere i massimi capi delle due fazioni De Stefano-Tegano-Libri contro i Condello-Serraino-Rosmini, ad osare toccare un giudice. Ora i Lo Giudice tenterebbero da soli una azione di tale portata criminale? E il loro obiettivo sarebbe stato quello di incolpare i nemici storici Serraino per gli attentati. Insomma, al procuratore Lombardo importa che la Dda di Catanzaro abbia raggiunto: «Risultati funzionali con quanto prefissato dalla indagini». C’è un movente, per quanto debole? Ci sono gli esecutori? Abbiamo pure tutti i particolari del piano, dagli esplosivi ai mezzi di trasporto utilizzati, cosa altro si vuole di più? «Si deve considerare che Tegano e De Stefano sono cosche sotto l’attenzione di questa Questura e della Dda da oltre due anni e considerevolmente indebolite», ha aggiunto ai cronisti il capo della squadra Mobile Cortese.
Ricapitolando, i cuccioli del branco Lo Giudice e Serraino fanno gazzarra, si azzuffano, vogliono uccidere i pastori, e i capobranco De Stefano e Tegano niente ne vengono a sapere, niente decidono al riguardo, non si inalberano perché vengono scavalcati in una operazione di tale portata, né provano ad arrestare un progetto che avrebbe conseguenze devastanti per la reazione dello Stato a una nuova stagione delle bombe? Beh, se quanto raccolto dagli investigatori dovesse davvero corrispondere al vero, ci sarebbe ben abbastanza da esclamare: «non ci sono proprio più gli ‘ndranghetisti di una volta…».
tratto da LiberaInformazione